Il chimico e la neve

Ammetto che quando Giuliano mi ha chiamata ho accolto la sua telefonata con una gioia quasi fanciullesca. Lui è uomo di calcoli e numeri, ed è un uomo tanto delicato e gentile da non avermi voluto dire che avevo sbagliato, che lui non è un ingegnere, ma un chimico… un chimico, come quello di de andré. Lui, pilastro di Fronte del Don che non regala complimenti né sorrisi, non mi aveva mai raccontato nulla. Poi, inaspettatamente, l’ha fatto. E mi ha spiegato, raccontato di un percorso lungo e complicato. Ha una pazienza incredibile ed una memoria prodigiosa. Scrivere di suo zio, nonostante la straordinaria abbondanza di materiale che Giuliano ha messo a mia disposizione, è la sfida più complicata degli ultimi mesi. Facciamo un passo per volta. 

Domenico Colajanni detto Mimì era nato a San Pietro Avellana il 6 marzo del 1914. Ancora il ‘14, ancora l’anno di quei figli “che le guerre di Mussolini se le sono fatte tutte” per citare un altro amico di Fronte del Don, Osvaldo. Mimì era un ragazzo di poco più di vent’anni quando era stato mandato a combattere a Bengasi, ed anche lui aveva avuto il tempo di illudersi che la naia per lui fosse finita con tanto di premio di Lire 200, alla fine del ‘36. Sembrava. Non lo era, non lo era affatto. 

Piccolo Domenico, ultimo di 8 fratelli, ché gli ultimi - si sa - sono i più coccolati! In famiglia lo chiamavano Mimì e a 26 anni è di nuovo un soldato: da Civitavecchia al fronte occidentale, da quello fronte orientale jugoslavo, ancora il fronte orientale albanese ed infine il fronte russo. Conosco bene questo percorso, l’ho imparato a memoria studiando il foglio matricolare di mio nonno, erano nello stesso reggimento, nella stessa divisione Torino. Ed insieme alla Torino, Mimì ha vissuto gli orrori della ritirata, i combattimenti estenuanti, la fuga senza sosta, incalzati ai fianchi dai russi e dai partigiani alle spalle. E il freddo a congelare piedi e visi, a paralizzare l’anima. 

Le sue ultime notizie risalgono al 25 dicembre del ‘42. Giuliano non ha trovato altre lettere: la casa di suo nonno si trovava lungo la Linea Gustav, i tedeschi in ritirata hanno distrutto tutto. Non ci sono buoni e cattivi. È la “guerra totale”, quella che investe i civili e li vede fucilati e massacrati, le case bruciate, le donne stuprate.  È la “guerra totale”, come quella che anche noi abbiamo portato in Jugoslavia, in Albania e anche lì, sulle rive del placido Don. 

Secondo le ricostruzioni attente e precise che Giuliano ha operato negli ultimi anni, Mimì iniziò la ritirata e con la colonna fece tutte le tappe della disfatta: Popowka, Arbusowka,Tschertkowo e qui probabilmente è morto, intorno al 31 dicembre del 1942. 

E da qui in poi all’orrore si aggiunge il dolore della beffa di Stato. Soltanto il 30 giugno dell’anno successivo, sei mesi dopo, la famiglia ricevette il telegramma di Stato: Mimì è disperso.  

A nulla è valsa l’istanza presentata dalla mamma di Giuliano alla Segreteria di Stato Vaticana, quando ancora si sperava che Mimì fosse prigioniero. A nulla sono valsi i contatti con i commilitoni rientrati dalla stessa campagna bellica: loro non sanno, non ricordano. Loro, quelli rientrati, hanno l’orrore nel cuore e nelle orecchie le suppliche dei compagni di non lasciarli a morire nella neve. Loro, i sopravvissuti, sono vivi soltanto nel corpo, la loro anima è ferita a morte. Loro non vogliono sapere più, non vogliono ricordare più. 

Lo Stato, poi, è troppo impegnato a nascondere, a celare la portata della disfatta, non c’è tempo per i reduci, tanto meno per le famiglie dei dispersi. Soltanto un commilitone racconta alla famiglia Colajanni un’altra verità. La svela al padre del mio amico Giuliano, Aniello, e allo zio Giorgio: Mimì si è suicidato. Solo Lidia, l’unica sorella di Mimì, si rifiuta di crederci: per lei è troppo, quel commilitone ha certamente mentito. 

A proposito di bugie ce n’è una che lascia sgomenti: una lettera scritta da un commilitone di Mimì a marzo del 1944 in cui il militare racconta di aver visto Mimì in buone condizioni, riportando data e ora esatte del loro incontro, il 13 gennaio del 1943 a Millerovo. Tre settimane dopo l’ultima lettera: forse allora è vivo! 

Quando Giuliano mi racconta di questa lettera sono sconvolta: la sua voce è cambiata, il suo accento così spiccatamente romanesco non c’è più! Si è trasformato, è un molisano puro che non conoscevo ma che riconosco subito: è la voce del cuore. Eccolo il cuore del mio amico Giuliano, quell’uomo che non regala complimenti né sorrisi, il chimico pragmatico, eccolo finalmente che cede alla tenerezza come quando vede la neve ad aprile e manda il video ridendo con la tenerezza dei bambini! 

Quella lettera è una colossale bugia. Il sergente Gammarota non era più in Russia già dal dicembre del ‘42, al momento della disfatta lui era già a casa con una licenza per avvicendamento. 

Anche Domenico avrebbe potuto beneficiare di quella licenza, ma aveva deciso di attendere qualche giorno ancora per rimpatriare con il suo ufficiale e fare un viaggio di ritorno più breve. Non ha fatto in tempo. 

Giuliano, ve l’ho detto, è una miniera di informazioni e nel corso della telefonata è tutto un susseguirsi di informazioni e di ricerche, di storie di vita, di storie di storia. Mi racconta degli interrogatori degli ufficiali della Torino. C’è anche un nome che conosco bene, l’ingegnere Dell’Ali, a cui mio nonno fu legato per tutta la vita. 

Un ultimo, incredibile, aneddoto mi tocca il cuore. Durante la sua ricerca, Giuliano è riuscito a trovare la Cartella Particolare dello zio Mimì, miracolosamente integra e non data alle fiamme come da prassi. La trova presso il CEDOC di Caserta ed è carica di documenti. C’è la corrispondenza di suo nonno, numeri senz’anima di quanto dovuto agli eredi Colajanni con un prospetto dimostrativo dei giorni di prigionia di Mimì dal 1° gennaio 1943 al 28 febbraio 1947, “C’era il prezzo di mio zio: 122.538 Lire” mi dice laconicamente Giuliano.


Giuliano Colajanni cerca suo zio Mimì da oltre 15 anni e durante la sua ricerca ha conosciuto una vera a propria dicotomia tra mente e cuore: per quanto non riesca a trovare, non può smettere di cercare. Eppure ha trovato, ha trovato tantissimo ed ha trovato una fotografia di suo zio Mimì del 28 giugno 1942. La portava sempre con sé suo nonno Aniello, finché non ha dovuto consegnarla ai carabinieri come prova del grado di sergente di Mimì, per stabilire ancora una volta il prezzo della sua vita. 

Adesso la foto è tornata a casa, tra le mani di Giuliano, quel nipote che da anni cerca suo zio per restituire dignità ai 229.000 uomini dell’ARMIR mandati in Russia a morire nel corpo e nell’anima. 


Giuliano è un chimico, anche se io credevo fosse un ingegnere. È un uomo pragmatico e puntiglioso, un ricercatore attento con uno spiccato accento romano, ma è anche il mio “amico del Don” che a volte lascia parlare il cuore e ne svela la voce: ha accento molisano e il candore di un bambino che, quando vede la neve ad aprile, manda il video ai suoi amici del Don per condividere con loro una tenerezza mai svelata.