Lezioni d’amore.
La Signorina Giuseppina Biundo e Sebastiano Noto, il suo migliore amico.
Giuseppina ha 102 anni, il prossimo 1° gennaio ne compirà 103. È incredibilmente lucida, a tratti più di me che, travolta dalle mille frenesie della mia vita, dimentico tutto, anche come concludere questa frase. È evidentemente infastidita dalla mia visita che per lei ha le caratteristiche di un’incursione nel suo ambiente, in quella casa di riposo, La dolce età, in cui è tanto coccolata e nella quale vive con il suo amico del cuore. Lui si chiama Sebastiano, è ben più giovane di lei, “potrebbe essere mia madre” mi dice strizzando l’occhio in segno di complicità. Non è vero, ma lui si diverte a far arrabbiare Giuseppina. Solo lui la chiama così. Tutti gli altri la chiamiamo Signorina. Alla fine è proprio Sebastiano, il signor Noto, a rompere il ghiaccio. Lo fa con il solo scintillio dei suoi occhi, con quel suo sorriso generoso, con la carezza che fa alla sua amica Giuseppina prima di lasciarle aggrapparsi alla sua mano. Non vuole parlarmi Giuseppina: le incursioni non le piacciono, le ricordano la guerra, quando gli aerei volavano basso anche sul cielo di Monterosso Almo, quando risuonavano le sirene e le campane e loro dovevano correre a nascondersi in una groppo “sotto lo stradone”.
È ancora una volta Sebastiano a rassicurarla, a stuzzicare la memoria e i ricordi.
Io vado subito al sodo, senza troppi preamboli: è un’occasione più unica che rara e la Signorina entro un’oretta vorrà cenare. Spiego chi sono, racconto loro di questo progetto e spiego che il fulcro non è rappresentato dai combattenti, ma dalle vittime tutte, le vere vittime: quei ragazzi e le loro famiglie. Quest’ultima parola è il grimaldello per la Signorina. Finalmente si volta verso di me e mi vede per la prima volta, mi guarda negli occhi.
“Ma voi ve la ricordate la guerra?”. È una domanda quasi pleonastica per loro. Come si può dimenticare? C’è una costante nei racconti di queste persone. C’è una linea, che sottile non è, che unisce tutte le storie come punti di un unico disegno, una linea fatta di miseria e fame. Mi tornano in mente le parole della signora Angela: “peni niviri e fami ranni”. Non usano quest’espressione, ma il mondo che mi raccontano è lo stesso. È sempre lo stesso mondo di miserie e di frumento razionato, di fame e di soperchierie. È Sebastiano che me lo dice senza falso pudore “quelli, i fascisti, facevano schifo! Facevano i gradassi solo con il popolino, con i poveri disgraziati come noi!”. La signorina è gentile per natura, non è donna da lasciarsi andare a reazioni incontrollate né lascia spazio all’acredine, ma le parole di Sebastiano l’hanno toccata nel cuore: 80 anni dopo - evidentemente - certe umiliazioni continuano a bruciare.
Loro, i fascisti, andavano nelle case di campagna e bucavano i sacchi di paglia con dei paletti per vedere se ci fosse frumento nascosto, ma lo facevano solo col popolino… quante umiliazioni!
Questo me lo ricordo - Giuseppina s’è finalmente lasciata andare ai ricordi! - Pasta non se ne trovava. Si prendeva il grano, la razione, e s’impastava in casa - mi spiega col sorriso Giuseppina.
E il grano che avanzava rispetto alla razione stabilita se lo prendeva Mussolini, come quando dicevano “date oro e ferro per la Patria”. E poi invece anche quello se l’era portato Mussolini mentre scappava con sua moglie.
Ma no, signor Sebastiano, non era sua moglie quella. Era l’amante.
Mai avrei immaginato di suscitare tanta ilarità! Malgrado, o forse proprio per la loro età, sono straordinariamente pudichi e la parola “amante” li imbarazza come bambini.
La stessa pudicizia che sottolinea Giuseppina raccontandomi uno dei momenti più emozionanti della sua vita: la processione di San Giovanni del ‘46.
Come al solito è Sebastiano che mi spiega l’antefatto, ma la dolcezza della Signorina è incantevole. Mi spiegano che i monterossani finiti nei lager nazisti avevano fatto, durante la prigionia, un voto a San Giovanni Battista: se fossero tornati vivi a casa, avrebbero portato in trionfo le statue del santo e della Madonna sulle spalle nude.
“Piangevamo tutti: un’emozione grandissima. Vedevamo quei baldacchini pesantissimi su quelle spalle nude, col sangue che colava, e piangevamo a guardare questi poveri ragazzi, a ripensare a quello che avevano vissuto, a quello che avevano visto durante la guerra”.
Mi parlano di Sebastiano Roccuzzo, il papà di Giuseppe e Giovanni: tutti e tre mandati alla guerra. Il mio cuore si spezza a pensare ad una donna che, in un colpo solo, si vede portar via tutto ciò che ha. Sembra che abbiano sentito il tonfo del mio cuore e mi rassicurano: sono tornati tutti e tre vivi. E la voce si rompe ancora nel ricordo di tanto dolore. Sebastiano mi racconta del suo papà, mandato a Spalato a fare la guerra, il suo papà che aveva lasciato in casa la moglie e i suoi quattro figli. Era già grande, non sarebbe dovuto partire per un fronte estero… Il racconto di Sebastiano si blocca un istante, il suo cuore forse sta battendo troppo forte, oppure s’è fermato per un attimo. Il suo papà s’è strappato tutti i denti pur di tornare a casa.
E poi sono arrivati gli Alleati che, sottolinea la Signorina, “sono entrati festevolmente”, gentilmente, con i loro carichi di confetti e biscotti, caramelle e cioccolatini, con la speranza che fosse tutto finito, finalmente. Invece non era che l’inizio, ma questo lo sappiamo noi, a posteriori. Loro no, non sapevano nulla delle deportazioni e dei lager, di chi era morto ammazzato e di chi veniva massacrato di fatica e di botte in un campo di lavoro. Loro sapevano solo che erano soldati: non c’erano lettere, non c’era televisione, c’era una sola radio dei combattenti che, dalla piazza, mandava solo i proclami di Mussolini.
Chiedo anche dei militari andati in Russia. Sì, alcuni non sono tornati… ma sicuramente è perché si sono sposati là ed hanno messo sù famiglia: dall’orrore bisogna pur sempre proteggersi, anche se hai vissuto tutt’un secolo, il “secolo breve” macchiato del sangue di decine di milioni di persone, di soldati e di donne, di vecchi e bambini.
Forse è il caso di addolcire un momento che rischia di diventare straziante per tutti noi e racconto un aneddoto che so tocca sempre il cuore. I soldati italiani, in qualunque fronte si trovassero, su un campo di battaglia o dietro al filo spinato di un campo di prigionia, tutti loro cantavano la stessa canzone, tutti si rivolgevano alla donna della loro vita. Ho appena il tempo di intonare il primo verso e sento il cuore di Giuseppina aprirsi: “Mamma, solo per te la mia canzone vola…. sei tu la vita e per la vita non ti lascio mai più.”
A Giuseppina Biundo, La Signorina, e Sebastiano Noto, “amici del cuore” che per due meravigliose ore si sono tenuti per mano, ricordandomi che l’amore, e solo l’amore, è l’unico elisir della vita.
Ad Adriana Morello e alla sua mamma, Giusy Burgio, per l’amorevolezza e la dolcezza con cui coccolano gli ospiti della loro casa di riposo di Monterosso Almo, La dolce età.
Un ringraziamento sincero alla professoressa Giusy Roccuzzo che, con tenacia e pazienza ha organizzato quest’incontro.