Vittorino Chioffi 

I fili inaspettati tessuti dal caso, quel caso che so che non esiste, i fili dell’amore: loro tornano nella mia vita con una bellezza quasi violenta, travolgente. 

Maria Cristina l’ho conosciuta in una serata speciale e lei mi ha parlato di stelle e dei fili del destino, di quel destino che voleva che ci conoscessimo, che ci trovassimo. E così è stato e forse lei ed io non ci siamo solo trovate: ci siamo ritrovate! 

Maria Cristina è stata uno dei più bei regali di Fronte del Don. La sua forza dolcissima, il suo amore per il suo papà sono tratti che l’hanno fatta entrare subito  nel mio cuore. 

Quando mi ha raccontato di lui ho ritrovato un amore indicibile, inspiegabile a chi non lo vive personalmente, quella stessa amorevolezza che ha sempre caratterizzato il rapporto con il mio papà.

Il suo papà si chiamava Vittorino e a me già il nome suscita tenerezza, come di qualcosa di prezioso e fragile come cristallo. 

Vittorino Chioffi era un tenente della Sanità del Regio Esercito presso l’837° ospedaletto da campo in Russia, ma credo che quel grado l’abbia conquistato più per il suo titolo di studio che per una reale vocazione per il mondo militare. 

Maria Cristina mi ha raccontato di lui dalla fine, dal suo infarto del natale del 1988 al suo risveglio dal coma la notte di capodanno dell’89. Si è svegliato con i botti e per lui, lui che aveva fatto la guerra e l’assedio di Millerovo, per lui che aveva visto gli occhi senza vita e brandelli di cervello attaccati alle assi delle camionette, quei botti non erano di festa. Quando si è svegliato, quella notte di festa e di botti, Vittorino ha pianto tra le braccia di sua figlia, certo di aver sentito i bombardamenti del natale del ‘42 a Millerovo, con nelle orecchie le urla dei suoi commilitoni, “le voci dei ragazzi sul filo spinato che chiamavano la mamma”. Rientrato dall’ospedale, aveva iniziato a scrivere poesie e continuerà a vergare pagine d’umanità e dolcezza fino al 23 gennaio di quello stesso 1989, fino a quando il suo cuore non reggerà più. Quando se n’è andato Maria Cristina ha rimesso insieme i racconti, le memorie e gli appunti del suo papà, ha ricucito i fili e ha pubblicato un libro bellissimo: “Faville di umanità tra gli orrori della guerra”. 

Forse quelle faville di umanità di cui parlava Vittorino erano ciò che gli aveva permesso di rimanere in vita dopo la ritirata, forse anche dopo quell’infarto terribile, ma quegli orrori della guerra avevano avuto troppo peso sul suo cuore, avevano preso a schiaffi e pugni la sua anima così violentemente da non permettergli più di andare avanti. Quegli orrori, ad esempio, che tornavano ad ogni vigilia di natale, quando lui ripensava a quel povero Cristo accanto a lui che gli ripeteva “povero me, non rivedrò più i miei bambini". 

Ripeteva quella frase ogni vigilia di natale e forse riviveva ogni volta quella vigilia di natale del 1942, quand’era a Millerovo e la città era assediata e loro non avevano idea di cosa stesse accadendo. Quella notte tutti gli ufficiali erano stati chiamati a rapporto presso il comando di tappa, in una riunione presieduta dall’ufficiale più alto in grado, un maggiore, uno che aveva fatto fucilare quattro ufficiali e ne aveva fatto suicidare uno, lo stesso che poi s’era fatta venire una colica biliare. Aveva convocato quella riunione ed aveva spiegato la situazione, poi aveva fatto il suo discorso augurale “bisogna difendersi fino all’ultima goccia di sangue!”. Fino all’ultima goccia di sangue… ma il sangue degli altri però, non il suo! Conosco bene le coliche biliari e, per quanto dolorose, non mi hanno mai impedito di perdere un solo giorno di lavoro. Per il maggiore invece quel dolore era stato così intenso che se n’era scappato in aereo e aveva lasciato i suoi uomini lì, a morire come topi in gabbia, a crepare sotto i colpi dei russi, a resistere fino all’ultima goccia di sangue.

Quand’era piccolo Vittorino aveva il terrore del sangue e dei morti, nel raccontare dei suoi giorni al fronte diceva di esser diventato come un professionista del settore delle pompe funebri, capace di provare solo pietà, sempre e solo pietà per quei ragazzi già morti. 

Così come all’inizio dell’assedio i boati delle bombe lo facevamo tremare e gli impedivano di dormire e poi invece quello scoppio era diventato tanto abituale da non riuscire più a prendere sonno per il tremendo russare di un suo commilitone e da non fargli sentire più quei “tuoni infernali e assordanti”. 

Nel suo libro ripercorre le tappe, le paure, racconta del suo cardiopalma e delle persone che ha incontrato, di quel cappellano con cui ha parlato per tutta la notte e che adesso non si trova più. Racconta di Pietro, un bimbo di 9 anni che l’anno prima aveva perso tutta la sua famiglia ad Odessa, durante un bombardamento aereo. Era diventato parte integrante del reparto, si nascondeva dappertutto e poi, saltato fuori dal suo nascondiglio, li guardava con gli occhi vispi dei bambini sopravvissuti, con l’allegria di chi è rimasto vivo malgrado tutto. Nella copertina del libro è ritratto uno di questi bimbi, una delle tante mascotte dei reparti italiani, bambini ucraini che avevano perso tutto ed erano stati accolti dai nostri reparti, li avevano vestiti con le divise dei soldati meridionali e se li erano portati dietro anche durante la ritirata. Chissà che fine ha fatto Pietro! Chissà se è poi giunto insieme a quell’altra ventina di bambini da Don Calabria, a Verona.

Vittorino Chioffi ha compiuto 29 anni il 7 gennaio del 1943 e forse il buon Dio ha voluto fargli un regalo: uscire dalla Millerovo assediata dai russi e iniziare la lunga marcia verso la salvezza. 

Vittorino è tornato a casa, ha trovato la sua donna eccezionale ed ha avuto i suoi figli eccezionali. L’aveva sempre saputo lui che sarebbe andata così, doveva andar così. L’ha sempre saputo malgrado nella sua mente avesse già chiaro il telegramma ricevuto dalla sua famiglia nel quale comunicavano che era morto o forse disperso. Lo racconta lui stesso spiegando quanto avrebbe preferito essere solo al mondo per non dover immaginare lo strazio della sua famiglia, la disperazione della sua mamma e del suo babbo: “essere solo al mondo… anche questo, proprio questo sembrava ormai troppo bello!”.

Che doveva andar così lo sapeva anche la sua mamma, che gli aveva scritto una lettera nel giorno del suo compleanno, e diceva “io non so come e perché, ma ho una gran forza d’animo che mi rende talmente fiduciosa da crederti invulnerabile”. Le mamme sanno sempre tutto…

Vittorino è tornato a casa. Quando era solo un ragazzo si ritrovò tenente medico e fu scaraventato a Millerovo. Lui che da piccolo soffriva di horror mortis, si era ritrovato a reggere il fronte in una città assediata, nell’ospedaletto da campo 837 e aveva imparato che anche il turbamento di fronte all’orrore era un lusso che loro non potevano permettersi. Lui che, quand’era ancora un ragazzino, di fronte ad una goccia di sangue finta a teatro aveva vomitato a più non posso per il raccapriccio, si era ritrovato a Voroscilovgrad a guardare una strana ambulanza a cui un colpo di mortaio aveva portato via la parte posteriore destra. E lì, proprio lì, in quel che restava del mezzo, attaccata ai vetri, una strana gelatina grigia e rossastra: il cervello di uno dei feriti trasportati. Lui che, malgrado i morti che continuava a vedere e pezzi di cervello e budella e moncherini e occhi schizzati, aveva continuato a provare pietà per la mesta sepoltura di quei ragazzi: una breve preghiera, poi il cappellano prelevava il piastrino, il portafogli, pochi oggetti ancora per riportarli alle famiglie, per restituire qualcosa dei loro figli, dei loro mariti, del loro papà. Si era affezionato al cappellano, avevano passato la notte a chiacchierare e lui si era confidato, gli aveva raccontato dei suoi sogni di ragazzo che vuole tornare a casa. Anche il cappellano era morto a Voroscilovgrad, mentre dava l’estrema unzione a due moribondi. L’ha centrato in pieno una bomba. 

Vittorino è tornato, ma non ha mai dimenticato i treni carichi di feriti usciti da Millerovo e mai arrivati a Gomel, non ha dimenticato il tenente medico Parini che, guidato dalla sua bussola, era andato dalla parte opposta, né mai dimenticò “le voci di quei ragazzi, sul filo spinato, che chiamavano la mamma”. 

A Vittorino e Maria Cristina Chioffi per aver saputo scorgere “faville di umanità tra gli orrori della guerra”.